Lifted
Arianna Baldoni
Il quadro si dà come un enigma, o, meglio, come un rebus o un test: le immagini agiscono in funzione di stimolo, sono dirette a porre un problema e a sollecitare la risposta-soluzione. E si tratta di problemi inerenti alla natura dell’arte e ai suoi fondamenti logici e linguistici.
F. Menna, La linea analitica dell’arte moderna. Le figure e le icone, Einaudi, Torino, 1975, cit., p. 56.
Lifted, sospeso. Le opere di Patrick Tabarelli sono dei fotogrammi immaginari, in cui i soggetti vengono immersi in mondi onirici e silenzi estatici, come proiezioni di un’immagine ‘falsata’ dal sistema di comunicazione.
La realtà della fiction è diventata l’unità di misura del quotidiano, originando una rappresentazione difforme dalla verità delle cose, scardinando lo schema archetipo di riferimento.
L’artista osserva e indaga i modelli di presentazione dell’oggetto propri, ad esempio, del linguaggio pubblicitario, restituendone il senso di interdizione nell’intento di vagliare il reale. Sono visioni sospese che si creano nell’atto dell’immaginazione di fronte all’invisibilità della ‘sovrastruttura’ – ad esempio la scenografia, o il regista – che compone e dà origine all’immagine. Questo deriva dalla consapevolezza dell’esistenza di tali parti costitutive, che divengono il mezzo invisibile di comprensione della frammentazione del reale.
“L’immagine – spiega l’artista – ha una sua labilità, è contenitiva di una sorta di ‘ansia’ che mi spinge a interrogarmi su ciò che sto effettivamente vedendo.”
Nei dipinti di Tabarelli, le figure vengono prelevate dalla fotografia e dai mass media, modificate nel valore di senso dell’immagine e reinserite in una dimensione sospesa. Ad esempio in Overloaded (2010) – tra le gambe di profilo sollevate dal pavimento e una nuvola di fumo appare in primo piano un ‘quadro’, che ritrae la figura di un uomo ‘volante’ appoggiato con la mano sulla testa di un bambino – è evidente il richiamo alle opere di Kenneth Josephson, “che sull’esempio magrittiano, ottiene uno spiazzamento della denotazione realistica ricorrendo all’espediente della fotografia nella fotografia”¹. (F. Menna). Nel dipinto viene inserita la rappresentazione dell’immagine fotografica. “La fotografia – sottolinea l’artista – presenta la realtà, qualcosa, come ci ricorda Roland Barthes, che sappiamo essere stato là. La pittura rappresenta. Mi interessa mescolare e avvicinare questi due mezzi espressivi ”.
Nel lavoro di Tabarelli la foto diventa lo spartito, sul quale l’artista non inventa ma replica, accostando soggetti provenienti da molteplici dati fotografici. Il tratto scompare, si eclissa tra una velatura impalpabile. Nelle opere più recenti ‘nebulizza’ con una soluzione alcalina le superfici, sottoponendo il lento e accurato lavoro a un processo di corrosione e cancellazione, sottolineando il valore precario dell’immagine.
La ricerca artistica di Tabarelli si sviluppa su più fasi a partire da opere come Eden Project (2008) – un giardino globale, che richiama l’omonimo progetto nel sud dell’Inghilterra, racchiuso all’interno di una tensostruttura in vetro – in cui emerge una vegetazione stratificata e sollevata dal terreno a cui si interpone la figura di un albero bianco all’interno di uno spazio geometricamente definito – una sorta di quinta teatrale – come se vivesse in autonomia rispetto all’ambiente circostante. È il paesaggio modificato dall’intervento umano, metafora della volontà dell’individuo di portare la natura all’interno della propria vita. Dalle logiche del processo di antropizzazione – nei progetti del 2008 – l’artista si appropria di elementi organici che rende artificiali attraverso l’elaborazione tridimensionale, come nella serie di opere Quasi Res (2009/10). “L’idea dell’immagine artefatta – spiega l’artista -, si traduce nel modello di presentazione di un oggetto o di un’idea, in cui il virtuale non è il contrario di reale ma di attuale. Il virtuale potrebbe essere, l’attuale è”. Da elementi artificiali di derivazione naturale, hanno origine forme sinuose e sempre più trasparenti che tendono alla smaterializzazione, per trasformarsi in volute di fumo come nell’opera Voluta, Volubilità (2010). Nella spirale brumosa la corposità materica comincia a sgretolarsi per poi dissolversi in un flusso inconsistente. Il fumo è il velo, quasi un sipario, che non svela ma filtra la realtà come nel racconto di Plinio Il Vecchio in cui Zeusi viene ingannato dal drappo di Parrasio².
La patina fumosa è l’interposizione capace di celare ciò che si trova dietro, che l’artista usa in modo reiterato come un mantra – dal sanscrito manas (mente) e trayati (liberare) –. Negli ultimi lavori l’artista recupera una figurazione più esplicita, attraverso un processo di associazione e ‘sublimazione’ in cui la volatilità del fumo si fonde alla sovrapposizione di più elementi. Ad esempio in The Lodge (2010), un uomo in una posizione innaturale, diviene una figura levitata dal carattere enigmatico, come se stesse galleggiando nello spazio del quadro, mentre lo sgabello poggiato a terra funge da oggetto di opposizione. L’uomo dall’abito formale e distinto – simbolo di certezza e solidità -, viene sommerso dalle volute di fumo che lo trascinano in un’atmosfera onirica. La struttura della presentazione della realtà viene ricodificata in opposizione al modello di comunicazione originario. E’ un processo cognitivo che proietta l’osservatore nel sogno e nell’universo ideale, in cui la dimensione sospesa è il mezzo d’indagine per definire – se possibile – la realtà. L’illusione sembra quindi celare il mondo reale, “[…] per noi occidentali, ciò che è nascosto è più ‘vero’ di ciò che è visibile”³ (Roland Barthes).
Lo spazio della tela tende a dilatarsi, dando vita a scenari da cui scaturiscono entità arcane e sibilline come in Floating Hands (2010). L’opera fa riferimento a un fotogramma tratto dal film Dr. Mabuse, der Spieler (1922) di Fritz Lang – il Dr Mabuse è un personaggio malvagio capace di soggiogare la mente degli individui grazie al potere dell’ipnosi e del magnetismo indotto -. L’immagine è stata ‘purificata’ da alcuni elementi, compaiono solo le mani disposte a catena e al contempo sospese nel vuoto, evocando il potere mistificatorio dell’immagine. La forma circolare viene ripresa anche nel video Losing the Centre (2010) in cui l’artista orbita intorno al proprio asse, forzando la perdita di equilibrio. L’equazione è: “ Se io sono quello che sono – spiega Tabarelli – perché ho fagocitato il mondo delle immagini, voglio cercare un modo, per destabilizzare e mettere in discussione la mia condizione, trovare un modo di liberarmi da questa stabilità”. L’artista gira su se stesso in modo ripetitivo cercando di scardinare l’equilibrio esistente, contrariamente a quanto avviene nel moto roteante caratteristico della danza sufi in cui si ricerca l’allontanamento dall’illusione attraverso l’euritmia del movimento. È la liberazione dal mondo contingente che somiglia sempre più a una rappresentazione, in cui finzione e realtà si abbisognano nel processo di materializzazione dell’esistente. La pittura nella ricerca di Tabarelli è il mezzo per avvicinarsi alla verità effettuale, che si cela nella narrazione fittizia di un “contro-mondo”, o meglio di una contro virtù.
Note
1 F. Menna, op.cit., (tavole).
2 Plinio Il Vecchio, Storia Naturale, XXXV 65-66.
«Si dice che costui (Parrasio) sia venuto in competizione con Zeusi, il quale presentò un dipinto raffigurante acini d’uva: erano riusciti così bene, che alcuni uccelli volarono fin sulla scena [i dipinti erano di norma esposti in teatro]. Lo stesso Parrasio, a sua volta, dipinse un drappo, ed era così realistico che Zeusi – insuperbito dal giudizio degli uccelli – lo sollecitò a rimuoverlo, in modo che si potesse vedere il quadro. Ma non appena si accorse del suo errore, con una modestia che rivelava un nobile sentire, Zeusi ammise che il premio l’aveva meritato Parrasio. Se infatti Zeusi era stato in grado di ingannare gli uccelli, Parrasio aveva ingannato lui, un artista».
3 R. Barthes,La Camera Chiara. Nota sulla fotografia, Einaudi, Torino, 1980, cit. p. 100.
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