Five Questions
Alberto Pala
Patrick Tabarelli nasce a Villafranca di Verona nel 1979 e sviluppa il suo percorso di formazione a Milano, fra il Politecnico e l’Accademia di Belle Arti di Brera. La sua ricerca pone al centro il tema delle immagini e della loro percezione. Attraverso un fare in cui l’autore si fa sempre più anonimo, realizza algoritmi che, grazie all’ausilio di macchine da disegno, generano lavori dove il contatto diretto fra artista e opera scompare.
Da quanto tempo fai l’artista e quali differenze noti fra i tuoi esordi e oggi?
A diciotto anni realizzavo opere utilizzando polveri di fusaggine, pigmenti puri e altri scarti pulviscolari, quasi sempre in bianco e nero o comunque dalle cromie molto sintetiche. Su questi supporti si mescolavano gesti energici e decisi che andavano esaurendo la loro forza, smaterializzandosi, grazie alla componente particellare della polvere stessa. Al contempo cercavo di fissare faticosamente (ahimè non sempre riuscendoci) quei depositi che si erano via via accumulati o che, in conseguenza dei miei interventi, avevano “disegnato” sulla superficie le tracce del loro passaggio.
Nei processi di allora ritrovo il mio desiderio di fare un passo indietro rispetto all’opera, di essere un agente provocatore, di lasciare, infine, che il caso o le circostanze seguano il proprio corso.
Quali tematiche trattano i tuoi lavori e che progetti hai in programma?
Cerco di ascoltare la corrente fluida del nostro tempo, dove tutto non ha una forma ben precisa e al contempo potrebbe essere anche il contrario di sé stesso. Così, nel tentativo di evadere da me stesso, ho rotto il vaso delle regole, l’unica cosa da fare a quel punto era ricomporlo in maniera diversa. Sono diventato prima meccanico, poi elettricista poi programmatore. Per sentirmi artista ho smesso di esserlo, per creare opere o smesso di farle, l’unico modo per esserci era “sparire”. Non a caso, il progetto che ha inaugurato il 3 maggio presso la galleria Luca Tommasi Arte Contemporanea, si chiama Ghost in The Machine, uno spirito che abita un oggetto inanimato, un’apparizione, un’immagine, un’illusione.
Come ti rapporti con la città in cui vivi?
Abito a Milano da ormai metà della mia vita. Credo di avere una memoria storica sufficiente per dire che sia una città migliorata e anche il mio rapporto con lei è andato di pari passo, ma non ne sono legato sentimentalmente.
Cosa pensi del sistema dell’arte contemporanea?
I galleristi fanno gli artisti, gli artisti fanno i curatori e così via.
Che domanda vorresti ti facessi?
Come nasce una tua opera?
Da ragazzino, aspettavo che i miei amici rincasassero per cena per trovare rifugio tra i grandi cilindri di cemento che utilizzavano nei cantieri e che all’occasione diventavano segreti nascondigli per le nostre scorribande. Nelle serate in cui il cielo era più terso, si potevano osservare delle lune cristalline. La luna è una sorta di disco bianco su di uno sfondo scuro, ma se cominci a guardarla con attenzione emergono i toni che ne modulano la superficie, quel disco si fa solido e rotondo. È in quel momento che il mio pensiero si posava sul satellite e il mio sguardo fantasticava su quel che potesse succedere dall’altra parte del nostro pianeta. Da questa distanza, che tiene insieme desiderio e mancanza, nasce tutto quello che faccio.
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